Intervista con
Winston Churchill
Sono arrivato a Como in treno
attraversando città e campagne segnate dalle ferite profonde della guerra.
È il 3 settembre 1945. Il treno ha sbuffato e sferragliato lungo tutto il
percorso, poi una corriera sgangherata mi ha portato fino sul lago.
Il cuore mi batte forte per l'emozione:
sto per incontrare Winston Churchill in vacanza in Italia dopo le elezioni
inglesi di luglio che hanno decretato la sconfitta del suo partito e le
conseguenti sue dimissioni dalla carica di Primo Ministro.
Ho chiesto un incontro a quest'uomo
tanto grande, l'uomo che ha sconfitto Hitler e salvato l'Europa, perché,
sapendolo balbuziente, m'interessa sapere qualcosa di più personale sul suo
conto e le sue impressioni relative al disturbo.
Suono la campanella della villa che lo
ospita e un domestico m'introduce nello studio dove lo statista mi sta
aspettando, appena rientrato dalla campagna circostante dove ha dipinto per
cinque ore di seguito; due tele sono appoggiate contro il muro e lui le sta
contemplando compiaciuto. Indossa calzoni di tela bianca ed ha ancora un
soprabito scuro e un cappello di feltro nero, ma si è infilato un paio di
pantofole.
Mi accoglie con semplicità cercando di
farmi sentire a mio agio e gliene sono intimamente grato. Per delicatezza
non voglio aggredirlo subito con l'argomento che mi ha spinto fin
qui; vorrei sciogliere il ghiaccio con qualche domanda su una delle sue
attività. Non ho che l'imbarazzo della scelta tra quelle che hanno
caratterizzato i suoi primi settant'anni di vita; politico, combattente,
giornalista, scrittore, stratega, economista, mediatore, oratore...
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Churchill
deve avere intuito i miei pensieri perché mi dice «Non è il caso
di mostrare imbarazzo. Abbiamo già concordato per telefono
l'argomento dell'intervista e sono contento di poter finalmente
passare ad altro; da due mesi non faccio che tormentarmi al pensiero
della sconfitta elettorale che mi addolora moltissimo perché
inaspettata».
Gli chiedo
allora, cercando di usare un certo tatto, di parlarmi della sua
balbuzie ed egli accoglie l'invito di buon grado. Si accomoda meglio
sulla poltrona, sorseggia un sorso di brandy, accende il sigaro e,
come togliendosi un peso, inizia il suo racconto.
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«Da bambino ero
timido, impacciato e balbuziente. Ero molto sensibile e a scuola ero
tiranneggiato e percosso dai compagni e incompreso dagli insegnanti. I miei
maestri mi trovavano nel contempo precoce e ritardato mentalmente... Leggevo
roba da lettori più grandi di me eppure ero l'ultimo della classe, forse
perché m'intimoriva e m'infastidiva la ferrea disciplina che si pretendeva
nel prestigioso istituto di Ascot. A dieci anni - prosegue - i miei decisero
di inviarmi in un istituto meno severo, quello di Brighton, dove si
respirava un'atmosfera meno rigida e dove ho trovato la comprensione e la
simpatia che mi erano mancate in precedenza. Qui le cose andarono meglio.
Nell'aprile 1888, a 14 anni, fui iscritto alla scuola di Harrow. Ero ancora
tra gli ultimi della classe, ma fu proprio allora che nacque in me qualcosa
di nuovo: decisi di impormi un duro tirocinio per raggiungere l'obiettivo
cui sono rimasto religiosamente fedele fin da ragazzo, la maestria della
parola. Mi circondava ancora una nube di incomprensione, ma mi resi
conto di sapere fare bene ciò che gli altri non sapevano fare: scrivere Mi
ero prefisso di distinguermi e quasi per sfida nel campo apparentemente meno
indicato: decisi di diventare un buon oratore. Leggevo tutto quello che mi
riusciva trovare su Lord Chatham, il famoso oratore inglese del settecento;
studiavo i discorsi di mio padre, statista della fine dell'Ottocento, e mi
esercitavo a pronunciare i loro e i miei discorsi davanti allo specchio».
Mi racconta tutto questo con grande
semplicità, con umanità, interrompendosi quando la voce gli s'incrina per
l'emozione.
Lo ascolto in silenzio perché Churchill
non ha bisogno di essere sollecitato. Glielo faccio notare e mi dice di non
aver mai avuto bisogno di essere stimolato in nessuna sua attività. «Se
sono qualcuno è perché sono stato io il pungolo».
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Appoggia il
sigaro di traverso sul bicchiere e prosegue: «Sono cresciuto, mi
sono fatto uomo, piccolo di statura, con braccia e gambe poco
muscolose e mani bianche e delicate. Ho continuato a parlare bleso e
con una certa balbuzie: incespicavo soprattutto sulla «s»,
ricordo. Quando mi alzavo per prendere la parola alla Camera dei
Comuni avevo sempre paura di dire qualcosa che potesse nuocere al
mio avvenire. A quei tempi non potevo parlare se non dopo
un'accurata preparazione. Una volta mi ero trovato in piedi, con la
mente del tutto vuota, mentre l'agghiacciante silenzio era rotto
solo da amichevoli e incoraggianti mormorii; tornato al seggio mi
nascosi disperato la testa tra le mani. Da quella volta la paura di
parlare in pubblico divenne più forte che mai. Tuttavia non mi sono
mai dato per vinto», conclude compiaciuto.
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Mentre il sigaro
continua a passare dalla sua bocca al bicchiere, riprende come se
improvvisamente si ricordasse di qualcosa accantonato da anni in qualche
angolo della sua memoria: «Una volta veramente mi è successo, quando ero
giovane. Caddi per due o tre anni in uno stato di cupo abbattimento. Mi fece
bene parlare con Clemmie, mia moglie. Ancor oggi non mi piace sostare
sull'orlo del marciapiede d'una stazione quando passa un direttissimo. Non
mi piace guardare il mare dal parapetto d'una nave. Pochi attimi di
disperazione e tutto sarebbe finito... Sa cosa mi ha aiutato molto nei
momenti di angoscia? Mi sono abituato ad elencare su un foglio le cause
delle mie preoccupazioni: se sono una mezza dozzina, un paio si dissolvono
sempre da sole, per altre due non c'è niente da fare e quindi è inutile
tormentarsi, e alle ultime due un rimedio si può trovare ed è su quelle
che concentro le mie attenzioni e i miei sforzi».
Racconta tutto questo sommessamente,
quasi parlasse a se stesso. E allora, un po' per ricordargli che ci sono
anch'io e un po' perché sono sinceramente ammirato dal suo modo di parlare,
fluido e pacato, mi complimento con lui.
«Non sono un oratore - mi risponde con
aria pensierosa - un oratore è spontaneo, i miei discorsi richiedono tutti
da due a sei settimane di accurata preparazione, poi me li imparo
interamente a memoria... credo di avere una grande memoria».
Poi si alza, si stira e si mette
improvvisamente a declamare con gran fervore lo sfogo di un uomo di campagna
contro la città. Gli chiedo di chi sia quel pezzo e lui, con sguardo
divertito: «Mio, l'ho inventato su due piedi».
Si ferma un attimo ad osservare con aria
critica i due quadri appoggiati al muro e colgo l'occasione per chiedergli
che cosa rappresenti per lui la pittura.
Sorseggia
un po' di brandy, assume l'espressione assorta di chi cerca di
ricordare e riprende a raccontare. «Fu dopo la sconfitta del 1915 a
Gallipoli, ad opera dei Turchi. Mi si incolpò della disfatta anche
se appariva evidente che non avevo alcuna responsabilità... I
conservatori non nascosero il loro atteggiamento ipercritico verso
di me, uomo politico quarantenne che pretendeva di saperne più
degli ammiragli in fatto di battaglie navali. Costretto a
dimettermi, per consolarmi mi dedicai alla pittura impugnando prima
la tavolozza degli acquerelli, poi quella dei colori ad olio. Mi
sono impegnato in questa nuova attività con la foga consueta e da
quel momento non ho più abbandonato i pennelli, sfogo principale di
tutte le crisi che ho dovuto affrontare. Devo anche dire che,
firmando con le pseudonimo di Morin decine e decine di tele, ho
raggiunto buone quotazioni», aggiunge con malcelato orgoglio.
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Famoso ritratto di Churchill
© Yousuf Karsh, 1941
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Guardo l'ora e mi accorgo che il tempo
è volato, ma prima di congedarmi chiedo a quest'uomo eccezionale come
affrontare le battaglie della vita e, particolarmente per nostri lettori,
come vincere la paura di parlare in pubblico.
«Le risponderò raccontandole due
episodi della mia vita. Nel 1918, a quasi cinquant'anni, mi si guastò la
leva di comando dell'aereo e precipitai sull'aeroporto di Croydon da
un'altezza di trenta metri; uscii alquanto malconcio dai rottami e due ore
più tardi tenevo un discorso alla Camera. Il secondo episodio è accaduto
quando dovevo pronunciare il discorso del mio esordio al Parlamento: mi si
avvicinò Lord Salisbury che mi chiese se mi sentissi nervoso. Alla mia
risposta affermativa mi consigliò di non farci caso, perché era successo
anche a lui: "Guardatevi intorno e dite a voi stesso. Quanti
imbecilli!..."».
Ringrazio Winston Churchill, che mi
accompagna fin sulla porta e mi guarda mentre mi allontano nell'aria
rossastra del crepuscolo. Mi volgo ed egli e ancora là: mi saluta con un
cenno della mano, poi alza l'indice e il medio a forma di «V», il suo
famoso segno che sta per «Victory», che porto con me come un amichevole
augurio.
Piero Pierotti